“Scrittrice prolifica dotata di una vena feconda dove scorrono in ugual misura capacità d’invenzione e una sensibile (a volte dolorosa) coscienza delle problematiche e situazioni nel mondo, l’autrice dà prova in quest’opera di una maturità stilistica e storica da sottolineare. Stupisce la grande abilità con cui B. S. ha accordato i suoi strumenti e talenti su toni, qui realistici, senza, tuttavia, nulla togliere alla ricchezza emotiva che la connota. È la scrittura che se ne avvantggia e, se, negli altri lavori della Spagnuolo, comparivano aggettivi come –omerica impresa- rappresentazioni epiche e altro, oggi, in quest’ultima pubblicazione, si gusta la misura di una prosa dove affiorano le caratteristiche scritturali di ieri stemperate e come purificate, nello snodarsi di una storia cui avrebbero fatto torto divagazioni pindariche. S’impongono subito doverose chiarificazioni: poesia trapela in ogni capitolo, ma senza invadenza, e la narrazione della vita del protagonista Ebenyin si muove tra solide conoscenze di tipo antropologico e dei mutamenti in atto in Nigeria. Quello di B. S. non è mai l’occhio del turista o dell’uomo “bianco”: a cogliere bellezze, miserie o bisogni è l’occhio dell’essere umano consapevole e alfabetizzato. L’autrice ne emerge come persona che ha saputo affinare strumenti atti a indagare, scoprire la “erba” della memoria dalla parte delle radici, storicizzarla e amarla. Quest’ultima meditata fatica di B. S. è dedicata “agli ultimi della terra”, a quei Nigeriani che non hanno né chiatte compiacenti, né denaro per lasciare l’amata terra dove tuttavia non si sa “la mattina che cosa si mangerà la sera”; è dedicata a una terra di antiche usanze dove gll’interpreti dei sogni e i maghi regolano e influenzano i destini.
L’autrice svela segreti che permangono sotto la sottile coltre di progresso e cambiamento che dovrebbero svilupparsi nelle città cui i giovani approdano con molte speranze e dove incontrano invece lo sfruttamento e il tarlo della nostalgia. La vicenda s’intreccia magistralmente all’ambiente in cui il personaggio cresce e raggiunge la maturità. L’autrice allarga la descrizione “schiudendo finestre impensabili sulle realtà tribali” e svelando risvolti della minoranza Bekwarra assolutamente inediti.
Il libro è dotato di una intelligente introduzione, che si distacca da quelle cui siamo avvezzi: è una vera e propria decodificazione a livello, direi, scientifico, e ben si accorda con un’opera come Le radici dell’erba, in cui ”narrativa e saggistica convolano a nozze con il libro di viaggio.
L’analisi narrativa di questo libro di B. S. affronta anche la semantica delle tradizioni linguistiche e si avvale di un glossario che riassume le parole della lingua bekwarra così bene inserite nell’ambientazione.
L’autrice dichiara che Le radici dell’erba non è un normale romanzo ma un nuovo genere che connota il romanzo con informazioni ignote al mondo e raccolte sul campo per salvare con la scrittura l’identità di un popolo destinato a scomparire nell’oblio più assoluto e che fa del romanzo anche un dossier e un libro di viaggio. Posso perciò affermare che la memoria si è, nell’opera in questione, fatta veramente monumento.
Altre e sapide caratteristiche si potrebbero cogliere e mettere in parole, ma soltanto la lettura diretta di quest’opera può testimoniare dal vivo la genuinità e la profondità del racconto, l’impeccabilità di uno stile che è maturato senza rinnegare i precedenti intriganti lavori letterari della Spagnuolo, della cui varietà e ricchezza avremmo apprezzato leggere in quarta di copertina, ove non ne troviamo traccia.”