Gerardo Ferrara
Notizie bio-bibliografiche
Gerardo Ferrara è nato, il 19 luglio 1944, a Noepoli, un piccolo comune medioevale della provincia di Potenza, appollaiato sull’altura, come una nave arenata sul belvedere affacciato alla finestra della Val Sarmento, l’amata valle “che faceva sembrare il mondo un posto immenso e pieno di cose da scoprire”, quando, da bambino, lo invitava a ripetere, con le sue piccole gambe che dolevano, “una corsa che cercava di raggiungere l’infinito” e che ha “creato la volontà di adulto in viaggio alla scoperta del mondo”, come scrive lui stesso, in una lettera. Ha sempre viaggiato, infatti, portando nel cuore la sua valle insieme agli affetti più cari, in tutte le latitudini della sua vita, raminga per scelta, per lavoro e per amore di conoscenza.
La sua vita di viaggi iniziò nel 1976, quando il viaggio era ancora avvolto nel fascino del mistero e l’Africa ne era la meta più romanzesca. E fu l’Africa, infatti, la prima “tappa” dei suoi viaggi di lavoro. Egli partì ignorando tutto di quella sua meta lavorativa e geografica. Abbracciò i suoi amori dicendo: “Vi chiamo appena arrivo”. Non chiamò dopo le ore previste, né il giorno dopo, né per molti giorni. Il suo bambino di quattro anni rimase seduto accanto al telefono per cinque giorni, lasciandosi spostare soltanto quando cadeva addormentato, ma la telefonata non arrivò. Arrivò una lettera, dopo quindici giorni, e, nel tempo, altre lettere. La prima telefonata sua moglie la ricevette dopo otto mesi, in piena notte, quando, dal selvaggio bacino del Katsina Ala river, da attraversare su chiatta, lui riuscì a raggiungere il plateau di Jos, a circa seicento chilometri dal luogo di lavoro, a mettersi in coda davanti all’unico telefono e a restare in piedi per ore, fino al momento del suo turno.
Ha lavorato come direttore amministrativo, dimorando per anni in giro per il mondo e conoscendo, dall’interno, come residente, Pakistan, Nigeria- Benue State- Kaduna State- F.C.T. State, Tanzania, Kenyia, Malawi, Algeria, Libia, Sudan, Venezuela, Cina, Turchia. Ha esplorato varie altre parti del mondo (Haiti, Malesia, Singapore, Santo Domingo, Rodi, Maiorca, Portogallo), lasciando ovunque l’impronta della sua umanità straripante. Ognuna delle terre che lo hanno ospitato gli ha lasciato ricordi belli o dolorosi da conservare e da narrare, ma la sua prima esperienza lavorativa all’estero, che rappresentò il suo primo contatto con un’Africa che mai più sarebbe stata come allora, lo segnò profondamente.
Ha organizzato, per motivi di lavoro, il trasferimento fisico di grossi siti stanziali, con annessi e connessi movimenti di materiali e organizzazioni tattiche di siti alloggiativi, beni di varia natura, forza lavorativa e comunità umana e con l’oculato discernimento di pianificazione del punto di arrivo e del relativo assetto provvisorio e definitivo e di tutto ciò che ne scaturiva. Ha fatto nascere agglomerati umani in luoghi impervi, selvaggi e inabitabili di ogni genere. Ha creato piccole città dotate di tutto e persino di case servite da fornitura idrica connessa a fantascientifici trasparenti depositi idrici, che riforniva con autobotti gigantesche, nel cuore del deserto. Ha vissuto esperienze grandiose e sensazioni struggenti di cui il mondo è ignaro e di cui i viaggi spaziali da lui descritti nei suoi libri contengono l’essenza.
Ha inventato e registrato storie, che inviava, attraverso i continenti, ai suoi bambini lontani. Esperto di fotografia, ha immortalato le identità di molti popoli, carpendone l’habitat, le dimensioni e i moti del cuore e insegnando ad altri amanti dell’obiettivo fotografico come trasformare, con uno scatto, un guizzo di vita fugace in arte duratura senza tempo. Ha organizzato una mostra fotografica anche nel territorio di Islamabad, tra le comunità internazionali riunite nella costruzione dell’allora diga più grande del mondo, la Tarbela Dam, durante i cui lavori ha ricevuto due onorificenze. Ha realizzato un vero e proprio documentario filmato nello straordinario territorio dell’incredibile Gansu del Nord della Cina, riuscendo a non incorrere nelle severe sanzioni del pericoloso controllo locale.
Ha concluso la sua vita lavorativa di viaggio là dove l’aveva iniziata, tornando in Africa, lavorandoci per più di un decennio, soffrendo di nostalgia per l’Africa di un tempo e di tristezza per quella contemporanea.
Ha mantenuto la sua fissa dimora italiana là dove ha costruito il suo nido, in Agrate Brianza. Ha lasciato la vita terrena il 4 giugno 2019, in Monza.
Le sue opere
Crio unità zeta quattro è stata la sua prima storia galattica, sotto forma di commedia, che ha registrato, usando i colleghi di lavoro come attori, sulle pendici delle montagne del Punjub.
– Suvu è il primo volume della collana di opere spaziali che Gerardo Ferrara aveva in mente e che consta soltanto di due volumi, poiché il buon Dio ha rapito l’autore prima che potesse scriverne altri. È un romanzo di fantascienza, che si fa scrigno della storia umana e traccia le linee di un suo futuro possibile soltanto nello spazio.
– Kerat è il secondo volume che parte dall’epopea umana narrata in Suvu e si addentra nella proiezione di una genia umana spaziale.
I motivi della presenza di
Gerardo Ferrara in S.OS. ROOTS
Questo autore entra a pieno titolo nel cuore pulsante dei motivi ispiratori di S.O.S. ROOTS 1- perché i suoi libri sono anelli fedeli della trasmissione della conoscenza e delle identità umane in parte estinte e in parte in estinzione, 2- perché la sua intera vita è stata un inno al passaggio della conoscenza alle generazioni future. Già da quando era ragazzino, consapevole dell’importanza degli anziani e della saggezza di cui erano detentori, devolveva loro il rispetto e l’attenzione che un discepolo devolve al maestro.
Da adolescente cominciò a osservare le tradizioni stagionali, bucoliche e religiose e gli scambi della solidarietà contadina atavica con grande attenzione e con la sensazione che una sorta di impalpabile ultrasuono di allarme avvolgesse i rituali ignari e le coloratissime scene inconsapevoli sia della simbologia preziosa che racchiudevano che del velo di disagio che gli causavano.
Per quelle inconsce percezioni, appena raggiunse la maggiore età e poté permetterselo, Gerardo Ferrara fu il primo e l’unico giovane della Val Sarmento a munirsi di uno di quei registratori pesantissimi dotati di due nastri magnetici, che erano le prime meraviglie della tecnologia.
Era un Grundig professionale che lui adibiva a uno scopo ben preciso: immortalare le voci narranti della valle, le figure illetterate e semplici che raccoglievano intorno a sé le menti fervide, nelle sere invernali accanto al fuoco acceso e in quelle estive sotto il cielo stellato più bello che si sia mai visto, nei vicoli, i strittuo, che, anziché dividere le case strette le une alle altre, ne divenivano un’estensione comunitaria.
Chi l’ha conosciuto sa che spesso raccontava, a sua volta, del “tale contadino abbrutito da calli, stenti e intemperie che aveva il dono raro del racconto e faceva vedere e quasi toccare, a chi ascoltava, ciò di cui parlava” o della “tal persona povera e ignorante che sapeva raccontare trasformando in avvincente avventura qualunque zolla rivoltata con l’aratro o con la zappa, qualunque fruscio di un lupo nella macchia, qualunque incontro o evento della vita contadina quotidiana”.
Chi era amico di G. F. sa che descriveva suo zio Vincenzo, detto CanneatI, con queste parole: “Era un viaggiatore della fantasia, un narratore nato, una di quelle figure dalla parola magica capaci di trasformare il dialetto in pura letteratura” e che si commuoveva raccontando delle sere di luna, in cui suo zio Peppe declamava, a puntate, le opere di Dostoevskij ai giovani assetati di conoscenza, che gli si affollavano attorno, riempiendo il luogo di turno del raduno, u strittuo, o u gafIyI, il punto in cui il vicolo sembrava un sottopasso, poiché s’insinuava nel bel mezzo delle case, sotto qualche stanza che lo baipassava come un ponte.
Tutto questo basterebbe a fare di G. F. un narratore per tradizione, un affabulatore del racconto orale imperniato sulla trasmissione del sapere di generazione in generazione, un rammendatore dello squarcio che ha interrotto la catena della trasmissione trasformando le nuove generazioni in alberi senza radici, ma bisogna aggiungerci il resto della sua vita, che ne è una mappa continuativa coerente senza interruzioni.
Egli ha usato il suo amore per la fotografia come mezzo con cui fermare il tempo e impedirgli di portare nell’oblio le identità della sua gente. Ha fatto escursioni a largo raggio tra le comunità del parco del Pollino e della Val Sarmento, fotografando i contadini nelle aie e i buoi aggiogati nella trebbiatura, le celebrazioni e i riti secolari. Era il 1971 e lui già sentiva che quel suo mondo ancora intatto era salito sul carro delle evoluzioni senza ritorno e che tutto ciò che pareva esser lì da sempre e per sempre non avrebbe atteso che egli tornasse dal suo peregrinare per il mondo.
Scattò tutte le foto in bianco e nero che poté e intitolò la sua raccolta: “Usi e costumi in estinzione”. Erano tempi in cui la realtà storica pareva invincibile e il tempo pareva eternamente giovane. I “marinai” di quella nave arenata sull’altura, ormai acculturati, divenivano emigranti, ignorando che i loro ritorni futuri avrebbero visto sbiadire gradualmente la loro realtà colorata, finché nulla sarebbe rimasto tranne le vestigia silenti della vecchia nave abbandonata e la siluoette attonita dei cipressi davanti al piccolo cimitero dimenticato.
Gerardo Ferrara, intanto, usava la sua arma contro l’oblio, scattando foto e recandosi nei luoghi più sperduti di altre terre – altri lidi, per conoscerne e farne conoscere le culture identitarie, mentre lavorativamente si faceva fulcro propulsore di aiuto, formazione e crescita. Ha accolto giovani di ogni cultura o estrazione, dando loro fiducia, preparandoli, formandoli, facendoli crescere umanamente e professionalmente, nei luoghi più impensati della terra. Ha concluso la sua vita lavorativa in una ditta africana. Vi era stato mandato dalla grande ditta consociata estera per cui lavorava, per l’analisi finanziaria del caso. Concluse l’analisi con la serietà professionale che consigliava alla sua ditta la vendita delle sue share di maggioranza, dato l’innegabile quadro disastroso a tutti i livelli, poi, anziché farsi la valigia e tornare frettolosamente alla sua ditta, la lasciò e rimase lì, con le migliaia di Africani che stavano perdendo il lavoro e, con esso, qualunque possibilità minima di sopravvivenza. Come san Francesco lacero e scalzo fu il pilastro che rimise in piedi la chiesa, senza alcun supporto lui si fece paravento di una situazione rovinosa. Memore dei valori antichi delle sue radici, concentrò la lealtà e l’umanità degli antenati nella stretta di mano sicura come garanzia sancita da un notaio e ottenne i fondi necessari a ripartire e a concorrere a nuove gare di appalto. Fu poco amato da chi giocava carte ibride diverse dalle sue, perché lui improntava gli uffici e decine di impiegati alla dirittura impeccabile e personalmente restituiva anche gli spiccioli che spendeva per gli scatti delle telefonate fatte settimanalmente ai suoi familiari dal telefono della ditta. Fu, però, amatissimo dagli impiegati locali tutti quanti e specialmente dai più umili, che aiutava di tasca sua regolarmente. Certo è che G. F. ha ricevuto dalle generazioni passate il lascito della conoscenza da tramandare e che si è fatto anello della trasmissione alle generazioni future sia in patria sua che in patria altrui…